Lavoro

Gli abiti che indossiamo prodotti da schiavi: ecco le marche, anche costose

Un report ha ricostruito la filiera degli abiti che dalle aziende nella regione dello Xinjiang arrivano fino in Europa. Queste società sfrutterebbero i cittadini uiguri costretti dalla Cina al lavoro forzato

Una sfilata durante la Fashion Weeek a Milano. Un report sostene che diversi marchi dell'alta moda, anche italiani, si riforniscono da industrie tessili che sfruttano il lavoro forzato degli uiguri della Repubblica popolare cinese. Foto Antonio Calanni / Ap / LaPresse

In vista degli acquisti di Natale rischiate di acquistare abiti frutto di lavoro forzato. Una serie di grandi marchi, sia più popolari che del lusso, è stata inclusa in un report su quali aziende rischiano di acquistare prodotti da fabbriche dove sono obbligati a lavorare gli uiguri. Stiamo parlando di marchi come Zara, Ralph Lauren, Levi's e numerosi altri. Dalla regione Uigura, nella Repubblica popolare della Cina, è concentrata la produzione di cotone e Pvc, due componenti essenziali per la produzioni di abiti. Qui sono concentrate anche numerose fabbriche cinese che sfrutterebbero i lavoratori uiguri, da anni oggetto della repressione da parte delle autorità statali cinesi. La notizia arriva in corrispondenza con il vertice tra Cina ed Unione europea, aggiungendo un ulteriore tassello negativo al puzzle di freddi rapporti tra Bruxelles e Pechino. 

Uiguri nel mirino

Negli ultimi sei anni il governo della Repubblica popolare cinese avrebbe istituito un sistema di lavoro forzato per cittadini uiguri, kazaki, kirghisi e altre popolazioni minoritarie presenti nella regione autonoma dello Xinjiang. Il lavoro forzato farebbe parte di un più ampio progetto di repressione portato avanti dallo Stato cinese nei confronti del popolo uiguro. Questo sistema facilita altri fenomeni come la migrazione forzata, le separazioni familiari, la sorveglianza di massa, come pure l'esproprio di terre, la cancellazione culturale e lo sfruttamento delle risorse. Il Partito comunista nega l’esistenza di un tale sistema di detenzione arbitraria e lavoro forzato di questa popolazione, ma proliferano le testimonianze di parenti dei reclusi nelle prigioni e nelle fabbriche come testimoniano gli "Xinjiang Police Files".

Abiti frutto di schiavitù

Il nuovo report "Responsabilità sartoriale: tracciare le catene di fornitura dell'abbigliamento dalla regione uigura all'Europa", spiega i modi in cui l'abbigliamento prodotto con il lavoro forzato entrerebbe nel mercato dell'Unione europea. Frutto della collaborazione tra l'Uyghur Rights Monitor, l'Helena Kennedy Center for International Justice e l'Uyghur Center for Democracy and Human Rights, il documento identifica 39 noti marchi ad alto rischio di approvvigionamento di abbigliamento realizzato da uiguri costretti dallo Stato a diventare manodopera per le industrie tessili. "La regione uigura produce circa il 23% della fornitura globale di cotone e il 10% del PVC mondiale, un materiale chiave nella produzione di indumenti e accessori protettivi. Di conseguenza, un'enorme quantità di vestiti e calzature di tutto il mondo rischia di essere implicata nel lavoro forzato del popolo uiguro", si legge nel report.

Le aziende coinvolte

Il team di ricerca ha identificato i quattro principali produttori di tessuti e abbigliamento con sede in Cina che hanno legami significativi con la regione uigura, attraverso rifornimenti, filiali o stabilimenti di produzione. Utilizzando fonti come dati di spedizione, resoconti finanziari e mediatici come pure dati di telerilevamento e mappe, gli autori hanno tracciato le catene di approvvigionamento di queste società. Sono così risaliti fino ai marchi e ai rivenditori nell'Ue. Tra le aziende cinesi figura ad esempio la Zhejiang Sunrise, che si rifornisce dalla Regione uigura, e probabilmente opera in quel  territorio sotto falso nome e partecipate. Secondo il report, la società sfrutta direttamente o si rifornisce da aziende che utilizzano programmi di trasferimento di manodopera per gli uiguri. La Zhejiang Sunrise possiede il marchio "Smart Shirts", uno dei principali fornitori di aziende internazionali di abbigliamento maschile, tra cui Hugo Boss in Germania, Ralph Lauren Europe e Burberry in Italia.

C'è poi Beijing Guanghua, un importante produttore tessile di proprietà statale con sede nella Regione uigura. L'azienda partecipa attivamente a programmi di "alleviamento della povertà", come "Xinjiang Aid", che in realtà sorvegliano e controllano il popolo uiguro. Il report ha riscontrato che i prodotti fabbricati da questa società sarebbero stati venduti a molti dei principali marchi di fast fashion come Zara, Next e Levi's. Altro caso è quello della Anhui Huamao, una delle maggiori aziende tessili e di abbigliamento, che possiede tre filiali nella regione interessata e che pure sfrutterebbe il lavoro forzato. I suoi prodotti vengono esportati nei mercati di fascia alta sia in patria che all'estero. Tra i suoi clienti figurano Prada, Max Mara, Albini e Burberry. Nella lista completa compaiono anche Mango, Puma e il gigante del fast-fashion Primark. 

Discussioni a Bruxelles

I ricercatori indicano che la politica dell'Ue non protegge i suoi consumatori dall'acquisto di prodotti realizzati con il lavoro forzato. A Bruxelles si sta discutendo come vietare l'ingresso nel mercato dell'Ue di prodotti realizzati con questo tipo di sfruttamento come pure sulla direttiva sulla due diligence nell'ambito della sostenibilità aziendale. Questo rapporto indica anche il modo in cui la legislazione può isolare i mercati dalla complicità nelle violazioni dei diritti umani contro gli uiguri. Come esempio viene citata un'apposita legge entrata in vigore negli Stati Uniti col nome di Uyghur Forced Labor Prevention Act, che ha frenato le importazioni dalla regione. 

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